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21/02/2016 - SELVA DI MALANO - MASSI ERRATICI - SANTA MARIA DI MONTE CASOLI -
Documenti sul sito GRUPPO TREKKING TIBURZI – ESCURSIONI NELLE TERRE D’ETRURIA - VII REGIO 21 FEBBRAIO 2016 LA SELVA DI MALANO – MASSI ERRATICI - SANTA MARIA DI MONTE CASOLI – I SUOI SIGNORI ***************** Oggi il Gruppo si inoltra nel lembo “nord-ovest” della “famigerata” ed estesa Selva Cimina, ricca di storia e fascino e di presenze misteriche, uniche al mondo: i massi erratici. La Selva molto temuta al tempo degli etruschi, per le innumerevoli insidie che riservava all’incauto passatore. Relativamente facile era entrare, ma presentava il conto nel traversarla e tornare indietro, con le sue recondite difficoltà. Passaggi nascosti ed impensabili, falsi sentieri contro alte rocce, o fiumi o forteti, tagliate, e guadi poi, imprevedibili e protetti da una fitta vegetazione. Gli intrusi non venivano affatto intercettati, ma lasciati perdere nella Selva controllati, a distanza, da occhi indiscreti, per evitare di far capire che il luogo fosse abitato. Ma la Selva rappresentava per il popolo etrusco un immenso sicuro e caldo “amnios”, che proteggeva e custodiva amorevolmente famiglie, paesi ed attività, circondando tutto il perimetro di Nord-ovest e Nord-est. Ma oggi le cose sono un po’ cambiate, la coltivazione estensiva della nocchia “viterbese” ricercata dall’industria dolciaria di tutto il mondo, ha spinto i proprietari terrieri al disboscamento. Migliaia di secolari alberi sono stati abbattuti e ciò che resta della nostra leggendaria “Selva” è soltanto un lembo residuo che dal Paese di Vitorchiano giunge alle pendici di S. Maria di Monte Casoli, per una lunghezza di circa 10 km., mentre in alcuni punti la larghezza tocca i 2 o 3 Km. massimo. Una volta, alcuni “tiburziani”, in fase di esplorazione, decisero di traversare per largo la nostra Selva. Ma innumerevoli furono le difficoltà incontrate nel procedere, non d’orientamento ma, per la impossibilità di superare alcuni punti impervi, a causa della fitta vegetazione del sottobosco. Eppure, malgrado il disboscamento incontrollato, quel poco che resta della residua Selva, trasmette un certo fascino al visitatore. I nostri massi erratici poi, ormai dimenticati, sono riemersi dal folto della vegetazione. Di loro se n’era perduta memoria. Questi massi erratici, pietre parlanti che ciascuno inducono al pensiero, la tomba del re, della regina, i vari sassi del predicatore, la piramide etrusca, l’ara della regina, pietra squadrata con un’insolita griglia scarpellinata sulle facce, forse orologio solare. Meraviglie del passato che andrebbero salvaguardate, eppure l’ara della regina è stata perforata su un lato, nell’intento di trovarvi dentro un tesoro. Sempre in zona c’è la meravigliosa chiesa di San Nicolao, fatta propria da uno strano proprietario e, lì prossimo, un villaggio etrusco sul fosso del Serraglio, e decine e decine di massi lavorati, pestarole, vasche e vaschette, tombe sparse nei dintorni. Poi se ci avviciniamo alla chiesetta di Santa Maria in Monte Casoli, uno straordinario villaggio preistorico, che si affaccia sull’omonimo Fosso, con caverne e grotte abitate dai trogloditi, il tutto incluso entro l’area di un Castello diruto, “Orsini” naturalmente. Poco più avanti un altro villaggetto etrusco, completamente nascosto, tra alte rocce e tagliate con senso ortogonale, e tombe od abitazioni nelle rocce. In direzione di Vitorchiano si incontra il villaggio rupestre etrusco di Corviano, con case ipogee ed intorno un castello senza nome del mille, nei pressi una chiesa longobarda con tombe atropoidali. Poi ovunque, senza un’apparente logica, massi abbozzati per qualche opera, per un’idea non più conclusa, e selciate e strade sulla roccia, ancora attacchi di ponte sul fosso Martello, con una mola eccezionale. Ma se passiamo al versante del Fosso Castello, attraverso una tagliata, l’abitato etrusco di S.Cecilia, un grazioso ponticello e sparsi reperti di emergenze antiche, con una inimmaginabile ed enorme piramide su un monolito, ti danno il benvenuto. Ovunque arte, arte a non finire, ma il culmine delle pietre lavorate, il luogo, lo raggiunge nel Bosco Sacro dei Mostri di Bomarzo. E non poteva essere altrimenti, dopo tanta vista, che gli scarpellini del luogo avevano assimilato nella loro testa, fu loro facile rappresentare sulle rocce figure di mostri immaginari, di divinità pagane, riportandole sulla materia che a iosa li circondava, i massi erratici.
L’ORIGINE DELLA CONFORMAZIONE GEOLOGICA DEL LUOGO Come tutto il territorio del Lazio, questo lembo estremo di Etruria si forma da violente ed antiche eruzioni vulcaniche che scaricano il caratteristico “peperino”, pietra lavica molto dura e resistente agli agenti atmosferici. Ma sarà poi l’intervento dell’ultima glaciazione ad interagire sul territorio. Per l’esattezza la Wurm, iniziata 110 mila anni fa e terminata da 10 mila anni circa. Il lento avanzamento del ghiaccio ha letteralmente tranciato ogni sporgenza collinare e picchi “dolomitici” lasciandosi dietro vasti plateau. Nel momento del ritiro dei ghiacci e dello scioglimento, i residui di questa azione fisica sono stati trasportati e depositati nelle valli, ove ancora oggi si trovano. Saranno poi gli artigiani delle popolazioni locali che si sono succedute a levigare e trasformare molti di questi “massi”, secondo la forma desiderata. Questi massi lavorati si attribuiscono alle popolazioni dell’età del bronzo (3500 a.C. - 1200 a.C. c.a.) ed a quelle dell’età ferro (fine del II millennio a tutto il I millennio a.C.). Ma il loro uso intuibile solo dalla forma. La storia locale non ci tramanda nulla al riguardo. I “sassi” dei predicatori, enormi macigni squadrati, dalla forma cubico-parallelepipeda o tronco piramidea, su cui sono stati ricavati gradini per raggiungere un’ara sommitale utile a varie funzioni. Per avvistamento e controllo delle valli, per comunicare rapidamente, con fumate, da un punto ad un altro nella valle del Tevere. O per funzioni sacrali, dai quali il sacerdote “predicava” alle sue popolazioni. Sempre sulla sommità di questi, probabilmente, venivano fatti sacrifici di animali e talvolta anche umani, a divinità come atti propiziatori o di adorazione, o per placare calamità naturali, epidemie od invasioni di popoli nemici.
I suoi popoli! I Neardentaliani e l’uomo sapiens sapiens. Gli appenninici con le loro transumanze, i Rinaldoniami avvolti nel loro mistero, i Villanoviani con le caratteristiche sepolture, gli etruschi. Ma è quest’ultimo popolo che qui ha lasciato i segni indelebili nel suo passaggio, giunto dopo un lungo peregrinare, dalle lontane coste della Lidia della Meonia gente. Aveva scelto il territorio d’Etruria come terra promessa. Ci aveva costruito le sue dodecapoli, confederazioni di città attorno ad un unico centro religioso, costruite ad una certa distanza dal mare (Cerveteri, Tarquinia, Vulci, Vetulonia). Al pari delle città mediorientali da cui proveniva, costruite su picchi tufacei al sicuro da ogni assedio navale - come l’antica Troia posta sull’altura di Hisarlik - pur forte di una marineria così sempre efficace, ovunque temuta e, terribilmente, inesorabile Purtroppo proprio in queste belle contrade si consumerà la tragedia bellica e la fine dell’auge del popolo etrusco. Dopo due battaglie decisive, nel 309 e 287 a.C, combattute presso il piccolo lago di Vadimone, posto al limite della Selva di Malano, in direzione dell’attuale Umbria, ove il Tevere descrive un’ampia ansa, gli etruschi verranno dominati, deportati e costretti a vivere in “colonie”, in estese pianure, il più delle volte ove era stato impiantato il “castrum” militare romano. L’esercito romano, qui giunto anche a bordo di imbarcazioni, forte di molti più uomini del popolo etrusco, peraltro, quest’ultimo, composto soltanto da “Tarquinii” e “Volsinii”. Ma secondo un particolare sistema di arruolamento il Comandante Etrusco aveva designato gli uomini più valorosi, ognuno di questi aveva scelto un compagno di pari valore, fino a raggiungere il contingente richiesto. Nonostante la formazione di un esercito così scelto, formato da uomini molto determinati, legati tra loro da profonda amicizia, malgrado il vantaggio di combattere in un territorio amico, votati ad una morte “fraterna” per la salvezza del loro popolo. Tanti di loro troveranno miseramente la morte, perché l’esito “bellico”non fu affatto loro favorevole. I romani, dopo incerte sortite dall’uno e dall’altro fronte, prendono il sopravvento in campo grazie all’intervento della cavalleria, infliggendo al nemico una tremenda disfatta. Si consuma così il periodo più nero per il popolo Rasenna, la cui potenza fu per la prima volta spezzata sul suo territorio, con il fior fiore delle truppe massacrato sul campo e con la cattura di numerosi prigionieri. Con le Battaglie del Lago di Vadimone si celebra il definitivo tramonto del popolo etrusco che, nell’arco di 8 secoli, aveva creato, costruito e mantenuto un impero. Retto da una lega di dodici città etrusche (dodecapoli) legate tra loro, ma autonome entro il loro territorio. Unite da patto di fratellanza nei conflitti bellici e calamità naturali, le dodici città si ritrovavano una volta l’anno presso il “Fanum Voltumnae”, santuario federale etrusco, di incerta ubicazione (forse in Velzna “Orvieto”od in Tarcna “Tarquinia”, od in Polimartium “Bomarzo”, o chissà dove). Nella circostanza si eleggeva il capo supremo della federazione etrusca e venivano prese importanti decisioni di politica interna ed estera, ma vi erano anche celebrate manifestazioni sportive, molto simili alle olimpiadi greche. Il santuario del “Fanum” era dedicato al dio Voltumna o Vertumno, probabilmente un aspetto particolare di Tinia (Giove greco). Termino questa breve introduzione recando omaggio al nostro conterraneo Vincenzo Cardarelli. Il poeta meglio di ogni altro scrittore, storico o filosofo, ha saputo sintetizzare in “quattro” versi, la nascita, l’evolversi e la fine del Popolo etrusco. Qui rise l’Etrusco, un giorno, coricato, con gli occhi a fior di terra, guardando la marina. E accoglieva nelle sue pupille,il multiforme e silenzioso splendore della terra fiorente e giovane di cui aveva succhiato il mistero gaiamente, senza ribrezzo e senza paura, affondandoci le mani e il viso. Ma rimase seppellito, il solitario orgiasta, nella propria favola luminosa. Benché la gran madre ne custodisca un ricordo così soave che, dove l’Etruria dorme, la terra non fiorisce più che asfodeli. Ivano Febbraio 2016 |