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04/12/2016 - GROTTA DEL BRIGANTE RICO - MONTI DELLA TOLFA
Informazioni per l'uscita. (Puoi fare copia e incolla da un testo Word, se vuoi. Ricordati di cancellare questa riga) Documenti sul sito GRUPPO TREKKING TIBURZI – CIVITAVECCHIA ESCURSIONE SUI MONTI DELLA TOLFA ALLA RICERCA DELLA GROTTA DEL BRIGANTE RICO DOMENICA 4 DICEMBRE 2016 ************** Conoscevo da anni l’esistenza della Grotta di Rico, la sua storia, ma non la sua esatta ubicazione. Questa, dicevano i vecchi, doveva trovarsi sulla sponda sinistra orografica del Fiume Mignone, nei pressi di Poggio Finocchio, a nord dei Monti della Tolfa. Grazie al Dott. Gianluca Muratore, laureato in scienze forestali, esperto ed amante del nostro territorio, abbiamo avuto più precise indicazioni. Con cautela e curiosità ci siamo decisi, un bel giorno dell’anno 2013 ad andare a scovarla. Questa, protetta da una grossa lastra di tufo, l’abbiamo comunque individuata e raggiunta. Alla Grotta, poi, siamo ancora tornati per studiare meglio il percorso, perché con le coordinate geografiche avevamo raggiunto la meta a “rocchio”, senza seguire i giusti sentieri!
Si trova questa in quota, su una costa di tufo nei pressi di Poggio Finocchio. Il luogo é infarcito di tombe, sepolte da sedimenti di cui si scorge soltanto il vano di accesso interrato. Anfratti preclusi da alberi morti, liane, tenace e spinosa vegetazione di sottobosco, rovi, smilax asper e radici secolari di alberi di alto fusto, alla ricerca della vita. La Grotta di Rico è indiscutibilmente frutto dell’ingegneria etrusca … sicuramente una tomba principesca. Sul pianoro soprastante sorgeva acropoli e paese, dal nome sconosciuto. Era uno dei tanti piccoli centri dei “Campi di Minione” citati da Virgilio nell’Eneide. Le numerose pestarole poste sul piano lasciano supporre che un giorno qui prosperava una florida vita “agreste”, un centro di discrete dimensioni che dall’epoca del bronzo è giunto fino al tempo degli etruschi. Gli storici locali tramandano che la Grotta in questione fu abitata dal Vaccaro Rico. Le cui “specialità” criminose e gli ultimi momenti di libertà lasciano supporre che questo potrebbe identificarsi con il brigante Enrico Stoppa di Talamone, catturato a Roma e finito nelle carceri di Firenze. Enrico Stoppa, toscano di nascita (Talamone 1834 – Firenze 1863), la famiglia era originaria di Caprarola (Caprolatta). L’uomo alternava la residenza tra il Granducato di Toscana e lo Stato Pontificio, tra un mandato di cattura e l’altro. Egli rappresentava la cattiveria impersonificata, elevata al quadrato. Sprezzante e prepotente, come tutti i membri della sua famiglia, le sue gesta, accertate, sono costellate di crimini efferati, compiuti, a volte, per il semplice sospetto di “spiate” o compiuti per questioni banali. Ma, per quanto abile ed astuto, la sua attività criminosa finì nel 1862, dopo un arresto in Roma. La classica scivolata su una buccia di banana, che dette la possibilità di tirare un sospiro di sollievo alle persone del suo paese scampate dalle sue grinfie, poste in evidenza sul programma criminoso del brigante. Condannato al carcere a vita, trasferito nella dura prigione delle Murate di Firenze, rinchiuso in una cella di piccole dimensioni, ove soltanto una minuscola finestra lo legava al resto del mondo, con ostinata volontà rifiutò di alimentarsi, dandosi pazzamente alla “masturbazione”. Anticipò così la data della sua morte, cosa che non si fece aspettare nel 1863, per l’aggravamento di una forma di tisi che aveva contratto. Amava definirsi “lo sparviere” della Maremma e, come si sa, gli uccelli selvatici mal sopportano la detenzione. Lui, avvezzo alla libertà dei boschi dell’Uccellina, agli azzurri e profondi cieli della Maremma, così recluso, si dette la morte! Aveva allora 29 anni soltanto, un vissuto spaventoso e raccapricciante, come soltanto pochi della sua risma potevano “vantare”. Non si accertò mai il numero delle persone che effettivamente soccombettero, senza pietà, sotto i colpi del suo fucile. Arma che ben sapeva maneggiare, perché dotato di una mira infallibile pur sparando, a distanza, a “palla”, nel suo dominio incontrastato. Un giorno sfidò persino da solo, tre carabinieri contemporaneamente, che stavano pedinandolo, si fermò e li uccise immancabilmente e spietatamente, uno dietro l’altro. Altre tre persone furono fatte fuori in un sol mattino. La sua furbizia superava la sua genialità. Se qualcuno nelle “osterie”, di passaggio da Talamone e dintorni, luoghi che il brigante spesso frequentava, e sotto l’effetto dei fumi dell’alcool si lasciava sfuggire, in tutta confidenza, di essere in possesso di una certa somma per sbrigare un particolare affare, aveva di certo chiuso con la vita! Lo Stoppa seguiva il malcapitato, lo uccideva proditoriamente, ripulendogli le tasche. Non lasciava tracce! Il corpo finiva scaricato nel folto delle macchie. Quando qualche tempo dopo i pietosi resti venivano rinvenuti, difficile era stabilire di chi fossero, senza documenti o denuncia di scomparsa e, soprattutto, impossibile identificare l’omicida. Un certo Cirri, cantastorie di Poggio a Caiano, così cantò: “Il cuore di costui feroce e forte Ostinossi, a non prendere alimento. Senza mangiare, da passion convinto, nella sua cella fu trovato estinto.” COME LO STOPPA FINI’ NELLA GROTTA DEL FU RICO … Leggendo la storia dello Stoppa “Lo Sparviere della Maremma”, libro di Alfio Cavoli, si apprende che intorno al 1860, fuggendo dalla natia Talamone, il brigante capitò dalle nostre parti perché ricercato nel Granducato. Presso la tenuta della Farnesiana venne informato che, per giungere in maniera “sicura” a Roma, schivando opportunamente Civitavecchia, doveva transitare per i Monti della Tolfa. Questa informazione la raccolse da alcuni butteri al servizio del Marchese Guglielmi, tra cui un certo Carlo Pasquini di Tolfa. Qui presumibilmente apprese l’esistenza di una grotta ben nascosta ove avrebbe potuto passare la notte. Dalle nostre parti trovò opportuna quella residenza così lontana dalla gente e dagli sbirri, forse si trattenne qui per due o tre mesi, forse anche di più, sotto il falso nome di Giulio Lena. Prestò opera di vaccaro nella fattoria di Bartolomeo e Sante Pescini in S. Severa Nord, comune di Tolfa. In serata presumibilmente rientrava a cavallo nella grotta, lontano da occhi indiscreti, seguendo sentieri aperti verso i boschi circostanti. In quel luogo, impervio ed isolato dal mondo, si trovava a suo completo agio ed in tutta sicurezza. Il bosco era molto simile a quello dell’Uccellina, lontano dal Granducato, ove l’aria, per lui, era divenuta ormai irrespirabile. ******************
L’ESCURSIONE ODIERNA ore 08:30 .. si parte! Ma giunti al punto di partenza veniamo “bloccati” da cacciatori “cacciarellari”, hanno già preso la “macchia”, dove dobbiamo passare noi, per una battuta al cinghiale. Sono questi fonte di morte per i figli del bosco senza nessuna tutela. Animali inutili e nocivi! Ed oggi nel pieno della loro attività ogni fratta nasconde un cacciatore ed fucile spianato! Meglio allontanarsi, conoscendo cosa a volte combinano! Ci spostiamo per scendere verso la Grotta dal Fosso di Costa Grande. Ma sulla nostra sinistra incontriamo i battitori della precedente cacciarella, che partono verso nord ad angolo retto rispetto al nostro cammino. Anche questi mal sopportano la nostra presenza e vorrebbero, senza averne alcun diritto, che ce ne andassimo o che spostassimo l’escursione. Ma quando cominciano i “pea … pea … pea” dei cacciatori e le doppiette cominciano a vomitare il fuoco, siamo già distanti, fuori tiro! Spari ovunque, urla di canee, vittime animali certe in entrambi i fronti. Sui sentieri leggo, nel fango ancor fresco, piccole impronte di cinghiali, giudico il passaggio di poche bestiole, di animali di piccola taglia, di 10 o 15 chili soltanto di peso. I grossi esemplari sono stati già abbattuti nelle prime giornate di caccia, ora non resta che uccidere i piccoli superstiti. Presto si estinguerà la razza di questi figli del bosco, così come è successo a tordi, merli, fagiani e tortore. Anche i falchi, presi di mira da questi figli di … Diana, non si vedono più volteggiare in cielo. Questa è l’Italia mia? Paese dove alcune associazioni politicizzate, in particolare del Lazio, non rispettano le basilari norme di comportamento imposto e che si conviene a certe attività. Quest’anno la caccia al cinghiale è stata aperta con un mese di anticipo, per consentire un cospicuo abbattimento della specie, perché la popolazione dell’animale è stata stimata di quantità superiore a quanta ne dovrebbe e potrebbe contenere il “bosco”. Ma io, che vivo nelle macchie tutto l’anno, posso asserire tutto il contrario. Di questi animali non ne incontro più da anni. Con ciò non voglio dire che non ce ne siano più. Affermo soltanto che la sovrappopolazione di cinghiali è una mera leggenda metropolitana che fa comodo a qualcuno! *********** Una bella discesa ci porta ai “Campi di Minione”, alta sulla destra sorride l’amena tenuta di un sardo: carrareccia con file cipressi alla “toscana” verso bel casale “terra Siena chiaro”, tutt’intorno prati svizzeri e querce rade. Mentre il Fosso di Costa Grande ci accompagna giù verso un’ansa recondita del Mignone, ovunque natura bella e selvaggia, oggi inospitale per l’uomo. Risaliamo l’erta china di un colle, descrivendo mezzo giro, e ci troviamo davanti all’ingresso della Nostra Grotta. Con potenti pile illuminiamo l’antro profondo e tetro, ma sembra quasi impossibile, la luce viene assorbita e non restituita a guisa di “buco nero” cosmico. Notiamo i fori nei muri ove erano piantati i tirafondi per tenere le catene che tenevano immobilizzata la ragazza che Rico aveva sequestrato a Blera. Questo per impedire che scappasse quando andava in “giro” a sbrigare i suoi affari. La prima stanza é alta circa due metri e venti, larga quattro e profonda almeno dodici ed ha, sull’ingresso, un’apertura nel cielo per scaricare i fumi del focolare. Un’altra stanza adiacente, il cui pesante soffitto, nel cedere una parete laterale, si è posto pericolante in diagonale. Una finestra lascia filtrare una luce insufficiente. Qualche dubbio che la sua apertura sia coeva al resto della grotta. Il soffitto delle stanze è colonizzato da un fungo e da alcune famiglie di pipistrelli, che illuminati soffrono i fasci di luce. Ci sono ancora, sulle pareti, grossi ragni e falene. Tutti questi abitanti convivono perfettamente senza danneggiarsi tra loro, in una perfetta e strana simbiosi. Finisce qui, oggi, il tuffo nel mondo del nostro “brigantaggio” che, per quanto perverso e discutibile, seppur sepolto sotto una nuvola di polvere e fango, esercita un certo fascino. ************************* Prof. Ferdinando Bianchi, volume “Il racconto dei Tolfetani”– Ed. Comune di Tolfa – Fondazione Cassa di Risparmio di Civitavecchia. "la grotta di rico' " Anche noi al Poggio del Finocchio, abbiamo trovato quello che, in un suggestivo articolo comparso sul periodico la Goccia, lo studioso civitavecchiese Carlo De Paolis, chiamò la Grotta di Rico. Quella grotta si chiamava, prima di allora, con nomi diversi, ma non importano i nomi, a me dava l’idea della spelonca dei ladroni del profeta Geremia. Tombe rupestri, abitazioni preistoriche o protostoriche, tombe etrusche o miniere abbandonate, dolmen come quello di Pian Soldano, il menhir Corona del Nibbio di Pian Cisterna, fanno del territorio tolfetano a volte ideale per i “briganti”, siano essi Robin Hood, Ghino di Tacco o Rico (o Rigo), e quel luogo in discreto pendio sopra il quale, quando arrivammo, risplendevano arcobaleni di nebbia, estiva, nelle pur profonde cavità, trasmise una sensazione vaga. Rigo, se Rigo il vaccaro abitava quella caverna a due stanze, non era un buon eremita come Piselletto, la Puttanella e Pietro il Santo, il quale a dispetto del nome sognava incontri notturni con una cantante degli anni sessanta, e altri che vollero scegliere l’emarginazione e la vita solitaria. Aveva una donna incatenata (Rigo), rapita a Bieda quando era ancora fanciulla ed aveva un cane che gli divorava i figli che lei partoriva. Il vecchio Belisario, sotto la Rocca, il più convincente fabulatore orale di cui si ha memoria nella nostra terra, raccontò una volta che Rigo, il crudele, terribile, odioso brigante entrò in una sua capanna. Era il tempo della vendemmia ed era accompagnato da un cane. Chiese da mangiare per se e per il suo cane. Belisario non aveva bambini da offrire per il macabro sacrificio né aveva altro che potesse soddisfare quella sorta di sgraziato minotauro. Ma ne conosceva la leggenda e, volutamente, fece cadere addosso alla bestia un liquido che aveva sottratto, quella stessa estate alle lucciole, pazientemente ad una ad una quando la luna e la brina fanno inargentare il grano. Appena uscì dalla capanna il brigante, nutrito di olive e di noci, Belisario corse alla Tolfa a chiamare gli sbirri, e li porto dalle parti della sua capanna. Bella è la vendemmia, ma di notte se non c’è luna, i tralci delle viti hanno forme spettrali. Belisario e gli sbirri videro in lontananza la luminosità delle lucciole e circondarono la grotta di Rigo. Rigo si arrese, ma lì appena fuori dalla grotta, videro il cane che spolpava gli ultimi ossi dell’orrendo pasto. C’erano rimasti soltanto gli occhi e la madre, la donna di Bieda, piangeva su essi, con i capelli sciolti. Altri pastori e contadini la raccontano in modo diverso, ma se è vero che il sogno è l’infinita ombra del vero, a noi piace questa versione, così tragica e colta, di una nuvola di luce impigliata una notte d’autunno fra gli antichi rami della Tolfa. Così finì la leggendaria storia del brigante Rigo, come lo descrive “Balilla Mignanti” … uomo prestante, anche cortese, ma anche uno che … “chi capitava in quegli orrendi artigli finiva in pasto al cane insieme ai figli.’- “
Vani 4 dicembre 2016
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