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TERRE DEL TIBURZI MONTAUTO (R. Vanì - 06 IV 2008) UN OMAGGIO AD UN AMICO! Forse quindici, venti anni or sono, ebbi la ventura di imbattermi, durante una battuta di caccia ai funghi, nelle impervie macchie di Montauto, in una capanna in sasso, ormai priva del tetto ma con tutte le pareti ancora erette. Non ebbi alcun dubbio nell’identificare quel rudere nel rifugio del brigante Tiburzi e soci, frequentato ben 100 anni prima, nel pieno della sua attività criminosa. Nessuno avrebbe potuto sopravvivere, se non costretto dalla latitanza od avvezzo a tante avversità, entro quel bosco infernale ad oltre cinque ore di pesante cammino dalle prima carrareccia e lontano anni luce dai primi centri abitati. Fu così che una volta incontrai in Montauto un vecchio cercatore di funghi, il volto rigato dalle radiazioni solari e dal tempo, piccolo di statura, con un cappuccio in testa simile ad un puffo. Una gran voglia di parlare, occhi penetranti e le mani, un gran gesticolare. Ma io fremevo per ripartire subito, con tutte quelle energie in corpo che mi ritrovavo, accumulate durante una settimana di scrivania ma di inattività fisica. Avvertivo nell’aria un gran profumo di micelio che lasciava presagire un ingente raccolta. Lupo solitario, non avevo alcun timore di traversare in lungo ed in largo quelle fitte macchie, senza fare mai il punto “bosco”, ove perfino nel mezzogiorno non si scorge il sole. La vegetazione è talmente intricata che una piccola deviazione sul sentiero di appena due o tre gradi ti porta fuori di parecchi chilometri. Ma, quel vecchio fauno, dopo avermi raccontato qualche episodio della sua vita, i suoi tempi migliori, che solo ora reputo interessanti eredità culturali, aggiunse: “quando ero giovane come te feci raccolte miracolose di ordinali in Montauto che, ora, non più, perché il tempo è mutato, le stagioni variate. Vedi, per esempio questo colle ad est che scende verso il Fiora, rigato da sei o sette fossi che scendono a raso verso il torrente maggiore. Ebbene nel corso alto del quinto torrente, ove la macchia mediterranea lascia più ampi spazi ad alberi di alto fusto, proprio di fronte alla capanna del Tiburzi, c’è una bollata di ordinali talmente vasta che quando caccia ci vorrebbero sette od otto cesti come il tuo per contenerla tutta!” Quel giorno passò dopo una discreta raccolta. Ma qualche anno più in là, intenzionato a monitorare altri territori, ripresi in esame la macchia ove incontrai il “vecchio”. Giunto sul posto, dopo aver girovagato, per alcune ore, e seguito, carponi, camminamenti di cinghiali passando, sotto una fitta ed impenetrabile vegetazione di corbezzolo ed erica arborea, scivolo involontariamente entro un canale, in pendio, piuttosto “muschioso”. Terminato quel forzato slalom scorgo, trenta o quaranta metri avanti a me, un tappeto bianco. “E’ quella l’ordinalaia del vecchio” penso tra me, “però che bella eredità ha voluto lasciarmi”! Già perché le bollate di ordinali crescono sempre allo stesso punto e chi lo trova non le indica mai a nessuno. Ma forse il fauno sentiva fisicamente di non poter più raggiungere quel bosco od avvertiva prossima la sua dipartita … Sono molti i funghi e li raccolgo con una certa smania un po’ incavolato contro la stagione siccitosa, che non ha permesso a quella vasta area di cacciare un’immane quantità di carpofori. Sono del genere “clitocybe geotropa”, ottimi e profumati funghi. Ogni fungarolo è così avido ed egoista che vorrebbe portarsi a casa tutti i funghi che il bosco fiorisce… ed io non smentisco tale norma! Dopo aver riempito il cesto di funghi, volgo lo sguardo sull’opposto versante della collina, intravedendo i resti cospicui di una fantastica casupola in sasso crudo. Mi rendo conto quindi della esattezza delle mie deduzioni e che quella é esattamente la capanna del Tiburzi. Raggiungo infatti il rudere e mi accorgo quanto questo sia nascosto, inaccessibile e lontano dal mondo. La innata diffidenza di un brigante, é quanto di più importante ci sia ai fini di una lunga e tranquilla latitanza. Non una dimora qualsiasi ma qualcosa di impensabile ed irraggiungibile da forze dell’ordine o da gente comune, costruita in un luogo particolare, scelto in base a certi requisiti! A fianco della capanna corre un fosso che ha scavato alte coste tra le rocce. Tutt’intorno a questo angolo riprende la vegetazione fitta, impenetrabile come nel resto della Selva di Montauto, ed è tale da scoraggiare il passo e le energie di chiunque! Per uscire e tornare fuori sui sentieri principali, non ci sono tante possibilità. Bisogna scendere nell’alveo del fosso scivoloso e seguirlo giù fino ad intercettare il torrente maggiore, oppure percorrerne le coste alte, scivolose anch’esse, con probabile rischio di finirvi entro, dopo un salto di vari metri. Tiburzi, di sicuro, si muoveva entro l’alveo del fosso, senza lasciare tracce intorno e per non lasciare aperti sentieri che avrebbero potuto essere utili anche per i suoi nemici. Il brigante, una volta raggiunto il torrente maggiore, lo seguiva fino ad intercettare il Fiora. Dal Fiora si portava indietro, verso l’Olpeta, per entrare nella Selva del Lamone, ove aveva un altro rifugio. Ma poteva anche seguire il Fiora verso il mare, ove incontrava il torrente Paternale, sulle cui sponde, ad una certa altezza, disponeva di una grotta con più uscite. Ma poi se avesse avuto nostalgia del proprio paese, più avanti ancora, intercettava il Timone, per risalirlo, dopo un percorso di quindici chilometri c.a., e ritrovarsi in Pianiano e Cellere, ove contava tanti parenti ed amici compiacenti, che non gli dispensavano un buon bicchiere di rosso e prosciutto freschi di cantina. La notte la passava entro la sua grande grotta a due uscite, sul torrente Timone, quella ove in passato ho organizzato una bella serata, la “Tiburziana 1° ”. Se invece voleva sconfinare nella vicina Toscana, ove i suoi reati non erano perseguiti, per preciso volere del Granduca, ma questo prima dell’unione italiana, bastava fare breve rotta verso ovest, seguendo il cammino del sole, avanti Monte Maggiore, ove raggiungeva Capalbio e le fatali Forane, e immergersi completatamene nella compiacenza delle sue amanti! E Tiburzi, come tramandano, pur piccolino di statura, era ben dotato … di quella cosa che fa piacere alle donne!
la capanna Ma torniamo alla capanna del Tiburzi! Dopo averla trovata mi ero
sempre ripromesso di tornare in quel bosco per dedicarle la giusta e meritevole
attenzione. In particolare un servizio fotografico, per far conoscere agli
appassionati di brigantaggio un rifugio del Tiburzi, di quelli non alla portata
comune! Ma di anno in anno ho rinviato sempre quell’appuntamento finché, il 27
marzo 2008, dopo circa venti anni dalla sua scoperta, in compagnia di Pasquale
"Lino" ed Antonio "ACE" sono ritornato su
quel luogo! Rettifica Mentre sto scrivendo questo mio breve, mi accorgo di essere già stato preceduto, al riguardo, da Antonio, sul Sito, con una dettagliata descrizione di “quell’apertura”, in onda con la dizione “Pellegrinaggio Tiburziano”. Ne prendo atto e rabbercio questa mia descrizione. Però, ad onor del vero preciso che: 1. - Nel racconto di Toni, l’uomo che ci ha indicato la casa di Domenichino in Montauto, in effetti non sapeva neanche lui dove si trovasse! Lo asserisco perché le sue indicazioni non erano esatte e ci avrebbero dirottato in tutt’altra parte! (In genere quando incontro persone entro boschi, selve od altro, per principio, non lascio mai trapelare le mie conoscenze sui luoghi che ritengo, non per vanità, molto particolari e non comuni. Riesco così a carpire molte più cose). [NdR:può essere vero ] 2. - Nel ricercare la capanna del Tiburzi, non ricordando bene in quale dei 7 corsi d’acqua che scendono il versante, fosse ubicata, nel dubbio si trattasse del 5° o 4°, ho preferito risalire il quinto fino alla sua foce per redire verso nord, intercettare e ridiscendere il quarto ove, a circa mezzo corso, è venuta fuori. Ma non avevo alcun dubbio di ritrovare la capanna e non ho rivelato il mio piano a Toni e Lino, per timore di insubordinazione ed ammutinamento, avendo già percepito sul percorso chiari lamenti, disapprovazioni e poi ci si è messa anche la pioggia ed i fulmini. [NdR: mmmhhhhh!!] 3. - La ricognizione è stata pesante, le condizioni meteo avverse, percorrere quel bosco ha smorzato molto le nostre energie, ed in particolare di chi ha sfondato il sottobosco molto intricato, ma rapidamente abbiamo recuperato la nostra forma. Comunque giustifico e soprattutto compatisco ACE, gli Ingegneri hanno un cromosoma difettoso, poi figuriamoci quelli elettronici che ce l’hanno in disordine browniano, ma i Ragionieri, è certo, specie quelli diplomati al “Baccelli” negli anni ’60, nel fisico di base sono privi dell’acido ribonucleico e desossiribonucleico e chissà facendo ulteriori ricerche ..... [NdR: Sic!] Descrizione della capanna del Tiburzi Dimensioni larghezza mt. 2.30, lunghezza mt. 4.00 (mq. 9 c.a.) porta orientata ad ovest, finestra a nord posta su un lato stondato. Presumibilmente sul lato est doveva esserci un’altra finestra (via di fuga). Il fondo è risultato saggiamente drenato con tavole di arenaria. Le mura costruite a secco con una perfetta tecnica come solo pochi artigiani sanno fare. Posta sotto controllo “metal-detector” in posizione metallo, il rilevatore è impazzito rilevando una gran quantità di minerale metallico nella pietra. In posizione “oro - argento” non rilevata alcuna percezione. Non avendo subìto la capanna, nel tempo, invasioni evidenti di piante da alto fusto, ciò lascia intendere che il lavoro di costruzione sia stato preceduto da un opportuno sterro fino a raggiungere la roccia viva su cui sono state deposte tavole di arenaria per trenta o quaranta centimetri, e mura perimetrali intorno, poi parzialmente interrate. Per cui qualsiasi fenomeno piovoso scivolava sotto il piano di calpestio. Non è stata trovata traccia del tetto della capanna per cui suppongo fosse realizzato in legno, andato distrutto nel tempo. Questa, rimasta disabitata per 100 anni circa - tutt’intorno è stata isolata con tre divisioni di palizzate e filo spinato a 5 passate, chiare “tracce” di altrettanti “fondi chiusi” forse in conflitto - lo rimarrà ancora per altrettanti 100 anni! Checché si possa dire o pensare, non posso fare a meno di riferirmi e paragonare, pensando al rifugio tiburziano, al tipo di costruzione attuata dal popolo etrusco, a secco, e preceduta da un fuoco propiziatorio sulla roccia viva … Quando sono entrato nel rudere non ho potuto far a meno di pensare a quello che accadde al suo interno nel suo tempo migliore. Ospitava almeno 4 dei più efferati briganti del tempo. Tiburzi, Biagini, Fioravanti e Basili, oltre alla cagnetta del Tiburzi, soffocata (soppressa!) un giorno perché abbaiando, correva il rischio di attirare alcune persone che, avvertite nei pressi, si erano troppo avvicinate. Entro questa sicuramente sono state prese determinanti decisioni criminose e tattiche. Aggiungo infine una piccola storia che si racconta sul Tiburzi, che potrebbe essere ascritta alla nostra capanna, di cui però non posso esserne certo perché il volume sul Brigante del grande Cavoli, ove presumibilmente l’ho letta, non mi è stato più restituito da un Tiburziano, cui involontariamente l’ho prestato. [NdR: restituzione avvenuta, ma ...] Si tramanda che il Tiburzi avesse dato incarico di costruire entro il bosco (di Montauto?) ad un muratore, una capanna in sasso crudo. Lo stesso venne debitamente bendato e trasportato sul luogo in modo che non identificasse l’ubicazione del nascondiglio. Dopo alcuni giorni, terminati i lavori di costruzione, l’operaio venne adeguatamente compensato dal Tiburzi e fatto accompagnare fuori di Montauto dal Basili. La notte il Tiburzi controllò le tasche del Basili, conoscendo le sue losche tendenze, riscontrando che lo stesso possedeva le monete e banconote pagate all’operaio. Il Basili era noto per rapine perpetrate ai danni di piccoli commercianti, persone non abbienti o poveri diavoli, e questo non andava bene al Tiburzi perché loro, briganti, vivevano percependo da nobili e signori (manutengoli), una sorta di tassa annuale (pizzo diremmo oggi noi), in cambio di immunità da furto o danno su beni e persone. E nei territori posti sotto la giurisdizione del Tiburzi non circolavano altri banditi! Quanto ricavavano da questa losca attività, era più che sufficiente per mantenere agiatamente tutta “l’associazione a delinquere” ed i relativi familiari. Inoltre il Tiburzi si permetteva di aiutare economicamente chiunque si rivolgesse a lui perché non riusciva a sbarcare il lunario. Si racconta che costituiva dote a favore di ragazze povere, in ricordo della sua povertà e della sua veloce e miserevole giovinezza. Malgrado tutti gli omicidi imputatigli, non uccideva guardie papaline o carabinieri, anche se non si è capito bene se lo facesse per non metterseli alle calcagna o perché, come asseriva, anche loro erano “buoni figli di mamma”. Tornando ai due briganti, Basili e Tiburzi, in relazione ai fatti accaduti in Montauto, finirono con lo sfidarsi a duello. Le voci di bosco dicono che Tiburzi, detto “Domenichino” perché appena raggiungeva il metro e sessanta di statura, nella sparatoria uccise con un colpo di pistola alla testa il Basili, detto Basiletto, il che lascia supporre che questi fosse ancora più piccolo del Tiburzi. Il Nostro Tiburzi, seppur brigante, seguiva regole di comportamento di un certo codice d’onore, che pretendeva fosse rispettato da tutti i suoi seguaci.
SUL BRIGANTAGGIO - FORSE NON TUTTI SANNO CHE: (Alfio Cavoli – Maremma amara ed. Scipioni). Nel trecento, Guicciardo dei Baschi, signore di Scerpena, si alleò con alcune bande di masnadieri bretoni nel castello di Musignano, presso Canino, per compiere razzie nei possedimenti di Siena. Rubava intere mandrie di animali e le conduceva sui mercati di Castro. Venne catturato e tradotto in catene nella città del Palio. Scerpena rimase nelle mani di una piccola guarnigione che, indispettita dell’ambiente infernale in cui era costretta a vivere, si getto alla macchia per ingrossare le fila dei malfattori che già vi imperversavano. Nel quattrocento, una massiccia immigrazione dalla Corsica nei paesi e nelle campagne dell’area collinare del Grossetano, porto come grave conseguenza un gran proliferare di delinquenti (Baldaccione, Chiticaccio, Colombone, Occhione, Lestofante). Nel 1492 Siena prometteva ricompensa con cento fiorini chi
consegnasse un brigante vivo, et cinquanta se l’ammazzasse. Il furfante funestava in modo particolare le campagne di Cerveteri dove anche un altro pezzo da novanta della malavita locale – Marinaccio o Mariannaccio – fu ritenuto talmente pericoloso da indurre il papa a mettergli alle calcagna, per catturarlo, più di trecento soldati. A distanza di qualche anno da questi fatti, Ferdinando II promulgava nel confinante Granducato di Toscana il noto “motuproprio” del 1593 che recitava testualmente: “Vengano pure i delinquenti perché non saranno molestati da qualsivoglia tribunale o principe, o inquietati da qualsivoglia denunzia, querela o accusa, che si fosse formata o si formasse contro detti immigrati, tanto per delitto o maleficio enorme, grave, enormissimo o gravissimo, o altro dai nuovi venuti o da chiunque della loro famiglia, compresi i servi, fosse stato commesso fuori del Granducato di Toscana” . Inutile dire che un decreto del genere, pubblicato per ripopolare il territorio e rivolto a cittadini di “qualsivoglia nazione, aumentò notevolmente il potenziale del crimine soprattutto nelle province di Grosseto, Pisa e Livorno. Verso la fine del settecento e nei primi decenni dell’ottocento che Gradoli offre al circondario due prodotti di sopraffina qualità criminale, Luigi Nocchia ed Antonio Chiappa; Latera sforna un gruppetto di energumeni di ineguagliabile spessore belluino, come Giovanni Erpitta, Clemente Rossi detto “Marcotullio”, suo fratello Pietro Rossi, soprannominato significativamente “Mattaccino”, e Brando Camilli. Ma anche Valentano, che pure annovera tra i suoi figli migliori personalità di rango quali Paolo Ruffini, insigne medico e matematico, ed Alessandro Farnese, non si dimostra da meno nel dare i natali a cittadini di infima categoria, come “Fumetta” e “Bustrenga”, al secolo rispettivamente Giovanni Paolo Grossi e Dionisio Costantini che, alleatisi con un non meglio identificato “Marintacca” sconfinato in territorio laziale dal Granducato di Toscana, seminano terrore e morte ovunque, compiendo omicidi, stupri, grassazioni, devastazioni, nella vasta zona che va da Pitigliano a Bolsena, a Tessennano. Ma nel territorio di confine fra Toscana e Lazio le manifestazioni banditesche più significative si verificano soprattutto nella seconda metà dell’ottocento e ad inaugurarle è il famigerato Enrico Stoppa di Talamone (anche se la sua famiglia era originaria di Caprarola) che rappresenta il brigante più feroce della Maremma. Seguiranno il suo esempio David Biscarini, Vincenzo Pastorini, Domenico Tiburzi, Domenico Bigini, Fortunato Ansuini, Damiano Menichetti, Settimio Menichetti, Antonio Ranucci, Sebastiano Menchiari, Settimio Alberini, Angelo Scalabrini, Luciano Fioravanti, Luigi Demetrio Bettinelli, Giuseppe Basili (tanto per citare i più noti) e, per quanto riguarda l’area geografica cimino e teverina, le decine e decine di delinquenti riportate da Antonio Mattei nel suo volume “Brigantaggio sommerso”, un libro di grandissimo interesse documentaristico e storico, frutto di una ricerca seria e scrupolosa che ha portato a galla la parte numericamente più cospicua di un ribellismo sociale di cui lo Stato Pontificio ebbe in maniera particolare la paternità e costituì l’area di irradiazione.
Vanì 06/04/08 |
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